Dimmi come ti chiami e ti dirò che marchio sei

Accade spesso che nell’ambito di un’attività commerciale l’imprenditore scelga di contraddistinguere i prodotti ed i servizi offerti sul mercato con il proprio nome e/o cognome, anche detto patronimico. Con questo articolo approfondiremo la forza dei patronimici e l’eccezione del settore vitivinicolo

Il settore della moda ci fornisce numerosi esempi di marchi costituiti da patronimici. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai celebri stilisti ed alle loro case di moda come Alberta Ferretti, Ermenegildo Zegna, Loro Piana, Fabiana Filippi, Dolce & Gabbana, Zanellato. Ma non mancano i riferimenti anche tra gli scaffali dei nostri supermercati, tra questi, per i prodotti alimentari i salumi Fiorucci, i biscotti Gentilini, il torrone Sorelle Nurzia, l’amaro Varnelli ed i distillati Caffo, per menzionare solo alcuni dei marchi più noti.

I citati esempi ci consentono di rispondere positivamente, seppur in via astratta, ad un primo quesito: “Posso registrare come marchio il mio nome e/o cognome?”. A ciò si aggiunga che, generalmente un patronimico è ritenuto appartenente alla categoria dei cd. marchi forti, ovvero quei segni dotati di elevata capacità di distinguersi da altri marchi, poiché tendenzialmente privi di legami al prodotto od al servizio fornito.

Inoltre, quando il marchio è costituito sia dal nome proprio di persona che dal cognome a quest’ultimo, la giurisprudenza maggioritaria, conferisce il ruolo di “cuore” del marchio.

Tuttavia, il cosiddetto diritto al nome, riconosciuto dal nostro ordinamento, subisce non di rado una compressione ogni qualvolta il patronimico, utilizzato nell’ambito di un’attività economica, sia già stato depositato o registrato da terzi e dunque possa creare un rischio di confusione nei confronti del consumatore a cui sono rivolti i prodotti e servizi, identici od affini.

Sotto il profilo normativo, tralasciando ad altra sede il caso disciplinato dall’articolo 8 del Codice di Proprietà Industriale (c.p.i.), che regola la registrazione come marchi di nomi di persona diversi di chi chiede la registrazione, l’articolo 21 c.p.i. nell’individuare le limitazioni del diritto di marchio d’impresa registrato sancisce espressamente la liceità dell’uso del patronimico (comma 1 lett.a) nell’attività economica quando esso coincida con il nome della persona fisica e purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale.

Al fine di delineare meglio l’inciso, “purché l’uso sia conforme ai principi della correttezza professionale”, la giurisprudenza si è orientata per ritenere come ammissibile l’uso da parte del titolare del patronimico, già registrato a nome di terzi, ogni qualvolta svolga una mera funzione descrittiva e non distintiva – propria invece del marchio – e dunque tale da non dare l’impressione che sussista un legame commerciale fra l’impresa terza e l’imprenditore titolare del marchio.

Sotto il profilo pratico, il nome anagrafico del concorrente, quindi, potrà essere riportato anche sul prodotto e sulla sua etichetta ma a condizione di escludere agganciamenti parassitari con l’impresa titolare del marchio patronimico registrato. Un esempio di uso lecito è individuato dalla prassi quando il bene sia contraddistinto da un proprio marchio – diverso dal nome anagrafico – oppure quando l’uso del nome sia in funzione descrittiva, quindi, venga riprodotto in caratteri normali o di dimensioni ridotte, accanto all’indirizzo od alla sede, preceduto dalla ditta.

L’effettiva esigenza descrittiva, quindi, risponde alla correttezza professionale quando, con l’indicazione del nome e/o cognome, si intenda fornire al pubblico una informazione veritiera circa la qualità del prodotto legata alla sua realizzazione da parte di determinati soggetti; è esclusa, invece, quando via sia il rischio di agganciamento od un’ipotesi parassitaria.

Come nei migliori casi, la “forza” dei marchi patronimici subisce un’eccezione nel settore vitivinicolo, ove il rischio di confusione tra gli stessi è sottoposto a criteri di esame meno rigorosi. Invero, non di rado accade che nelle medesime aree di coltivazione vi siano più famiglie che, attive nella produzione di vino in zone circoscritte, utilizzano lecitamente il medesimo patronimico come marchio. In tal caso, un aspetto essenziale, è rivestito dall’etichetta la quale deve essere idonea ad individuare e contraddistinguere il proprio prodotto differenziandolo da quello delle imprese concorrenti che operano con il medesimo o simile patronimico.

Il patronimico, dunque, in tale specifico ambito è spesso valutato di minore valenza distintiva e l’aggiunta del prenome al cognome, in specie se accompagnato da ulteriori elementi è stato ritenuto sufficiente ad escludere la confondibilità dei segni distintivi delle diverse aziende [Cass. n. 2191/2016, caso Castella].

Nel mercato dei vini, infatti, è stato ritenuto che il marchio non costituisce l’unico strumento per veicolare informazioni di cui il consumatore necessita al fine di esercitare in modo consapevole la sua libertà di acquisto del prodotto: la scelta del consumatore sarebbe influenzata oltre che dalla tipologia di vino e dalla cantina produttrice, anche dalle caratteristiche dello stesso, quali le indicazioni di qualità (IGT, DOC, DOCG), l’annata, il rapporto qualità/prezzo.

Ma come si conciliano queste particolarità che influenzano la scelta del consumatore che si approccia ad un vino con il principio generale che, nell’esame del rischio di confusione, vede un bilanciamento fra la somiglianza fra i segni e la somiglianza fra i prodotti? Tale criterio infatti è generalmente applicato a prodotti che sono altamente standardizzati, fra loro fruibili –anche se solo apparentemente- e soggetti ad acquisti d’impulso. Tra questi non dovrebbero rientrare i vini, prodotti di qualità, in forte competizione fra loro sul piano delle differenze qualitative e del rapporto qualità/prezzo e spesso oggetto di continue valutazioni da parte di esperti.

L’identità fra prodotti-vini va intesa – come ritenuto anche dalla Commissione Ricorsi – come appartenenza al medesimo settore merceologico ma non come normale sostituibilità di un singolo prodotto con un altro.

Ne consegue che nel mercato dei vini può essere tollerato un certo grado di somiglianza fra marchi denominativi e patronimici, purché l’uso dei marchi avvenga anch’esso nel rispetto della correttezza professionale.

In conclusione, dunque, i patronimici, grazie alla loro capacità distintiva, possono in astratto costituire marchi idonei a contraddistinguere in maniera efficace prodotti/servizi. Al fine di comprendere l’effettiva forza di un nome e/o cognome in relazione ad un’attività economica è sempre consigliato rivolgersi ad esperti del settore.

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