Il Nuovo Marchio di Certificazione Italiano

Con il decreto legislativo n. 15/2019, il legislatore italiano ha introdotto, a partire dal 23 marzo scorso, anche nell’ordinamento italiano, la nuova tipologia di marchio di certificazione. Pur essendo ormai in vigore da parecchi mesi, ad oggi, sembrerebbero essere state depositate solo tre domande di marchio di certificazione, tutte ancora in fase di esame. Tale istituto appare dunque del tutto nuovo e con il presente articolo auspichiamo di fornire utili spunti per una sua maggiore comprensione.

La principale funzione del marchio di certificazione – anche denominato “marchio di garanzia” dalla Direttiva UE 2015/2436 del 16 dicembre 2015 in materia di marchi d’impresa, recepita con il decreto legislativo n. 15/2019 – è quella di attestare la conformità dei prodotti e servizi certificati rispetto a determinati standard fissati dal titolare del marchio stesso (es. in relazione al materiale, al procedimento di fabbricazione dei prodotti o alla prestazione del servizio, alla qualità, alla precisione o ad altre loro caratteristiche).[1]

Precedentemente alla novella legislativa sopra riportata, l’ordinamento italiano già conosceva l’istituto del c.d. “marchio collettivo”. In assenza della specifica categoria di “marchio di certificazione”, già presente in molte giurisdizioni straniere ma non in Italia, la fattispecie del “marchio collettivo” di fatto racchiudeva sia il marchio collettivo in senso proprio, nel quale prevaleva una funzione di garanzia qualitativa, sia il marchio collettivo con funzione di certificazione.

Con la recente modifica del Codice di Proprietà Industriale (“c.p.i.”) il “marchio di certificazione” ha ottenuto un autonomo riconoscimento. Di seguito le particolari caratteristiche di tale nuova tipologia di marchio.

 

  1. La titolarità

L’art. 11-bis c.p.i. prevede che il marchio di certificazione possa essere richiesto da “persone fisiche o giuridiche, tra cui istituzioni, autorità ed organismi accreditati ai sensi della vigente normativa in materia di certificazione, a garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, […][2].

Il testo, invero poco chiaro, è stato oggetto di una duplice interpretazione, in base alla quale il marchio di certificazione italiano può essere richiesto da:

– le sole persone fisiche o giuridiche accreditate alla certificazione di prodotti o servizi[3]; o

– qualsiasi persona fisica o giuridica, istituzioni (amministrazioni centrali, regionali e locali), oltre agli organismi di certificazione sopra citati[4].

Seguendo la prima interpretazione, redatta nella relazione illustrativa che ha accompagnato lo schema di decreto legislativo emanato, il sistema italiano del marchio di certificazione sarebbe accessibile solo a una specifica categoria di soggetti, vale a dire ai soggetti accreditati all’attività di certificazione, che dovrebbero garantire un maggiore controllo sui prodotti e servizi certificati. Al contrario, la seconda interpretazione, redatta dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), risulta essere meno garantista, in quanto prevede, così come è previsto a livello europeo, che per essere titolare di un marchio di certificazione non sia necessario essere preventivamente accreditati a svolgere attività di certificazione. Allo stato, considerato che tale seconda interpretazione proviene proprio dall’Ufficio che è deputato al rilascio delle registrazioni di marchio, è poco probabile che una richiesta di registrazione di un marchio di certificazione avanzata da un soggetto non accreditato alla certificazione di prodotti o servizi, venga per tale ragione rifiutata.

In ogni caso, il titolare del marchio di certificazione deve essere neutrale rispetto all’utilizzatore del marchio stesso; in altre parole, il titolare del marchio non deve svolgere un’attività che comporti la fornitura di prodotti o servizi del tipo certificato. Il requisito di neutralità, applicabile anche a livello europeo, appare connaturato nell’essenza stessa del marchio di certificazione; nella visione del legislatore, il titolare diviene infatti l’organo supervisore che verifica il rispetto dello standard certificato da parte di tutti gli utilizzatori e per questo non può usare il marchio per i stessi prodotti o servizi che egli stesso certifica.

 

  1. L’uso del marchio

Come noto, per evitarne la decadenza, un marchio deve essere utilizzato, in maniera seria ed effettiva, entro 5 anni dalla sua registrazione. Sul punto, l’art. 24.1 ter c.p.i. ha stabilito che il marchio venga considerato usato, allorquando l’uso avvenga per il tramite dei soggetti legittimati.

 

  1. Il regolamento d’uso ed i soggetti legittimate ad usare il marchio di certificazione

Così come per il marchio collettivo, anche il marchio di certificazione richiede l’adozione (ed il deposito) di un regolamento d’uso che, tra le altre indicazioni, deve menzionare le persone legittimate a fare uso del marchio, i prodotti e i servizi che il marchio è volto a certificare, le condizioni d’uso del marchio, le caratteristiche che devono essere soddisfatte per poterne usufruire, le modalità di verifica di tali caratteristiche e le sanzioni previste in caso di infrazione[5] [6].

In relazione ai soggetti legittimati ad usare il marchio di certificazione, il dettato della norma appare alquanto vago, lasciando quindi spazio a dubbi interpretativi. In particolare, ci si chiede fino a che punto occorre essere specifici nell’individuazione di tali soggetti. Certamente improbabile è che sia necessario menzionare i nomi degli stessi[7]. Più verosimilmente si potrà assolvere a tale requisito indicando, come richiesto dalle linee guida del marchio europeo di certificazione: (i) qualunque soggetto che rispetti gli standard richiesti per la certificazione o (ii) una specifica categoria di persone. Al riguardo si precisa che le stesse linee guida, nel caso in cui si opti per l’indicazione di una specifica categoria di soggetti, richiedono che il regolamento menzioni i criteri oggettivi in base ai quali tali soggetti siano autorizzati ad utilizzare il marchio di certificazione. In mancanza di ulteriori specifiche nella legislazione italiana ed in assenza di qualsiasi linea guida o circolare dell’UIBM, la questione rimane aperta e verrà probabilmente maggiormente delineata con il consolidamento di una prassi di deposito.

 

  1. La designazione della provenienza geografica dei prodotti e servizi certificati

Diversamente da quanto previsto per i marchi “individuali”, i quali non possono consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi[8], per i marchi di certificazione italiani, così come per i marchi collettivi, non vige tale divieto[9]. Tale previsione si discosta sostanzialmente dalla analoga regolamentazione europea, che prevede espressamente che i marchi di certificazione non possano essere costituiti da indicazioni che, nel commercio, designano la provenienza geografica (ed infatti varie domande di registrazione di marchi di certificazione europei sono state rigettate proprio per tale ragione).

E’ possibile che il legislatore italiano abbia deciso di discostarsi dalla normativa europea di riferimento al fine di fornire agli operatori economici italiani un ulteriore strumento a tutela delle eccellenze del settore primario italiano; è, tuttavia, necessario precisare che, la deroga in esame, è sottoposta al vaglio dell’UIBM, il quale, qualora ravvisi che la concessione di segni o indicazioni di provenienza geografica possa arrecare pregiudizio ad analoghe iniziative nella regione, può rifiutare la registrazione dei summenzionati segni. Anche in questo caso manca ancora una prassi da potere analizzare per comprendere se e in quali casi l’UIBM eserciti tale funzione di supervisione.

In ogni caso, il nuovo articolo precisa che la registrazione del nome geografico come marchio di certificazione non autorizza il titolare a vietare a terzi l’uso nel commercio del nome stesso, purché tale uso sia conforme ai principi della correttezza professionale.

 

  1. L’obbligo di conversione dei marchi collettivi pre-riforma in nuovi marchi collettivi o marchi di certificazione

 

Da ultimo preme sottolineare che l’art. 33 del decreto legislativo n. 15 del 20 febbraio 2019 prevede espressamente che entro il 23 marzo 2020, i titolari di marchi collettivi nazionali registrati ai sensi della normativa previgente possono formulare domanda […] per la conversione del segno in marchio collettivo o in marchio di certificazione, ai sensi della nuova disciplina e che in caso di mancata conversione il marchio decadrà a decorrere dalla data di scadenza del termine ivi previsto.

Le modalità di conversione dei summenzionati marchi collettivi sono disciplinate dalla circolare 607 relativa alle disposizioni transitorie in materia di conversione del segno in marchio collettivo o marchio di certificazione.

 

Tale norma, non derivante dalla Direttiva UE 2015/2436, è stata probabilmente introdotta dal legislatore italiano al fine di chiarire quali, tra i marchi depositati in passato come “marchi collettivi”, debbano rimanere tali e quali, invece, debbano essere qualificati come “marchi di certificazione”. Pertanto, entro il 23 marzo 2020, il numero di marchi di certificazione dovrebbe aumentare, se non altro a seguito della conversione di alcuni marchi precedentemente depositati come “collettivi”. Ci auguriamo che tale istituto, nel tempo, acquisisca una maggiore diffusione, anche a tutela dei consumatori.

 

 

[1] Art. 11- bis c.p.i

[2] Art. 4 decreto legislativo n. 15 del 20 febbraio 2019.

[3] Commento all’articolo 4 della relazione illustrativa dell’atto di governo n. 55.

[4] Circolare 605 del 2019 emessa dall’UIBM.

[5] Tutti i requisiti che un regolamento d’uso deve soddisfare sono riportati all’art. 157 comma 1ter del c.p.i.

[6] L’Art. 14 c.2 lett. c) c.p.i. ha introdotto un nuovo motivo di decadenza, qualora il titolare del marchio non adotti misure ragionevolmente idonee a prevenire un uso del marchio non conforme al regolamento.

[7] Il che comporterebbe la necessità di modificare il Regolamento ad ogni variazione di soggetto legittimato

[8] Art. 13.1.b) c.p.i.

[9] Art. 11-bis c.4, c.p.i.

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