I Modelli Storici del Marchio

Come noto, il marchio viene ad oggi considerato un importante segno distintivo che svolge un ruolo di primaria importanza nelle maglie del tessuto economico. Ma quali sono le sue origini storiche? Quali tipi di marchi erano già in uso nei tempi antichi? Di seguito un’analisi sul vagliato tema dei modelli storici del marchio al fine di fare luce sulle sue remote origini.

È questione dibattuta quella che riguarda l’origine dei marchi; la prima indagine che si presenta dal lato storico, è quella diretta a ricercare se il marchio fosse conosciuto sotto l’impero delle leggi romane. Di questo fatto non vi può essere dubbio, in quanto se ne hanno prove incontestabili negli oggetti di quei tempi che vennero alla luce dagli scavi di antichità romane. Molti di questi oggetti portano impresso il nome dell’artefice, e ciò dimostra che, soprattutto i fabbricanti di vasi di quell’epoca, usavano imprimere il loro nome in extenso, o con le semplici iniziali, sui loro prodotti. Spesso ancora, al nome si accompagnano figure, segni simbolici, animali o emblemi. In particolare, presso i Romani il marchio rispondeva ad esigenze pubbliche ed al tempo stesso commerciali: la lex Cornelia puniva l’assunzione e l’uso di segni distintivi falsi dal punto di vista del diritto pubblico, cioè nei confronti dell’uso da parte del consumatore.

Anche nel tempo antico era quindi sentita la necessità di distinguere, con denominazioni diverse, le cose di ciascuna persona, soprattutto in tempi nei quali la primitiva semplicità della lavorazione industriale rendeva probabile il rischio di confusione fra prodotti della stessa specie. Tuttavia, è solamente nel medioevo che il marchio applicato agli oggetti dell’industria e del commercio, pur conservando il suo carattere di segno distintivo imposto dalla necessità, acquista un significato officioso, ed assume una vera funzione sociale. Gli statuti delle corporazioni e gli atti autoritativi dei Comuni prima, poi degli Stati assoluti, delineano una vasta gamma di figure che sono state ricondotte a tre tipi fondamentali.

La prima figura è quella del marchio collettivo ed obbligatorio, uguale per tutti gli appartenenti a ciascuna arte, ed apposto da funzionari della corporazione, previo controllo della rispondenza del prodotto alle regole tecniche emanate dalla stessa corporazione per la sua realizzazione; si tratta quindi di un marchio apposto nell’interesse della corporazione e con funzione di garanzia e di qualità.

La seconda figura, assai vicina alla prima, è quella del marchio individuale ed obbligatorio apposto dal singolo artigiano, ma nell’interesse della corporazione, con la funzione di consentire l’attribuzione di ciascun prodotto al suo produttore; esso rende effettivo il monopolio dell’arte e rende possibile, in caso di prodotto difettoso o comunque in contrasto con le prescrizioni dell’arte, l’individuazione (e poi la punizione) del colpevole.

La terza figura, assai diversa dalle precedenti, è quella del marchio individuale facoltativo, utilizzato da un artigiano al di fuori degli interessi della corporazione, per consentire al pubblico di identificare i prodotti da lui provenienti; si tratta quindi di un segno con funzione (privata) di indicazione di provenienza, e quindi con una portata concorrenziale assai netta. In un sistema di produzione artigianale, in cui prodotti dello stesso genere presentano notevoli differenze qualitative da produttore a produttore, la possibilità di segnalare al consumatore che certi prodotti vengono da una certa bottega, sono stati realizzati da un certo artigiano, rappresenta, per gli artigiani più abili ed affermati, un’arma importante nella concorrenza con gli altri produttori del settore. L’indicazione di provenienza, infatti, costituisce un’indiretta, ma sicura, garanzia di qualità.

Negli ordinamenti che lasciano alle corporazioni ampi poteri, i marchi più compiutamente regolati e più diffusi sono dei primi due tipi, detti appunto marchi corporativi, perché aventi la precisa funzione di proteggere un interesse della corporazione. Nei sistemi in cui le corporazioni hanno un ruolo più marginale, o non hanno alcun ruolo, è, invece, il marchio facoltativo ed individuale che conosce maggior diffusione, e riceve una disciplina più ampia. Si comprende quindi perché nell’Europa continentale i marchi corporativi abbiano avuto maggiore importanza e diffusione dall’età dei Comuni alla Rivoluzione Francese, evento che segna lo scioglimento delle corporazioni; e perché poi, dall’Ottocento, siano invece i marchi individuali facoltativi ad aver acquisito maggiore rilievo. Infatti, in tale epoca, la vendita di prodotti generici, offerti agli acquirenti in assenza di segni distintivi, può sopravvivere essenzialmente in settori limitati, come quelli degli alimenti freschi o delle materie prime; ma nei restanti campi l’impiego dei marchi per indicare l’origine dei prodotti prima, poi anche dei servizi, si è venuta generalizzando.

In particolare, l’affermazione della distribuzione commerciale, a sua volta portata dalla produzione di massa e dal perfezionismo della rete dei trasporti, hanno accresciuto la distanza, fisica ma anche organizzativa, fra i centri in cui si realizza la produzione e quelli nei quali avviene l’atto di acquisto. Scompare la bottega artigiana; e, nel nuovo assetto, è al marchio che è affidato il compito cruciale di ricreare, con l’ausilio della pubblicità, quel contatto fra produttore ed acquirente la cui forma originaria era nel frattempo venuta meno. Che lungo tutto il corso dell’Ottocento il marchio si sia affermato come strumento fondamentale della concorrenza di mercato, non può certo sorprendere, quando si rifletta sulla sua profonda congruenza con i postulati del liberismo economico. Infatti, tutto il diritto dei segni distintivi moderno svolge la funzione di agevolare il funzionamento ottimale dei meccanismi di mercato: nella prospettiva dell’acquirente, agevolandolo nel reperimento dei prodotti preferiti, ed in quella del sistema economico, premiando i produttori efficienti ed emarginando quelli inefficienti.

Questo articolo è stato pubblicato anche su CyberLaws.

 

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