Contributory infringement, commette un illecito anche chi fornisce elementi necessari all’attuazione dell’invenzione coperta da brevetto

Con la Legge 214 del 3 novembre 2016 di ratifica dell’Accordo su un Tribunale Unificato dei Brevetti, il nostro ordinamento ha finalmente disciplinato la fattispecie di contraffazione indiretta, anche nota come contributory infringement, la quale, per oltre venti anni, in Italia[1], ha trovato il proprio fondamento principalmente nell’analisi dottrinale e giurisprudenziale.

[1] Il leading case viene generalmente identificato con il noto caso Sidermes (Cass. 5406/1996), anche se, invero, una prima definizione dell’illecito si può già individuare nella sentenza della Cassazione n. 3387/1956.

Tale legge ha infatti modificato l’art. 66 del Codice di Proprietà Industriale (D.Lgs. 30 del 10 febbraio 2005), con l’aggiunta dei commi 2 bis, 2 ter e 2-quater.

Ai sensi della nuova normativa commette illecito contraffattivo non solo chi attua, per intero, un’invenzione protetta da brevetto, ma anche chi, al ricorrere di determinati requisiti, partecipa, più o meno consapevolmente, a tale contraffazione mediante l’offerta di singole componenti.

È infatti imputabile di contraffazione indiretta il soggetto che fornisce o offre “i mezzi relativi a un elemento indispensabile di tale invenzione e necessari per la sua attuazione nel territorio di uno Stato in cui la medesima sia protetta, qualora il terzo abbia conoscenza dell’idoneità e della destinazione di detti mezzi ad attuare l’invenzione o sia in grado di averla con l’ordinaria diligenza”.

Il legislatore ha chiarito che compie un illecito anche il fornitore che produce e/o offre in vendita componenti, non coperti in sé dal brevetto, ma essenziali e necessari alla realizzazione del prodotto finito incorporante il brevetto.

Secondo il dettato normativo, incorre nell’illecito non solo il fornitore che abbia prodotto e distribuito tali componenti nella piena e comprovata consapevolezza della loro destinazione per usi contraffattivi, ma anche chi, utilizzando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto conoscere o prevedere tale illecita destinazione.

E per tale via la giurisprudenza, invero già prima della novella legislativa, ha dichiarato, ad esempio, che costituisce contraffazione indiretta: diffondere materiale promozionale con cui si offre un prodotto – non coperto di per sé da brevetto – con l’invito ad utilizzarlo sempre in una specifica combinazione di materiali, laddove tale combinazione sia oggetto di brevetto (Tribunale di Milano 25.06.2010 in Riv. Dir. Ind. 2011, 4-5, 261); fornire disegni di un impianto oggetto di tutela brevettuale, con la consapevolezza della loro destinazione alla perpetrazione dell’illecito (Cass. 9410/1994 in GADI 3028, 1994); fornire un impianto per la produzione di ammoniaca dall’urea, di per sé non contraffattivo, ma con la consapevolezza – desunta in quel caso da una serie di circostanze di fatto – che l’acquirente lo avrebbe utilizzato secondo l’insegnamento dell’altrui brevetto (Trib. Milano 16.05.2011, Giur. Ann. Dir. Ind. 2011, 1139).

Un regime speciale di imputazione soggettiva è previsto poi per il caso di “prodotti correntemente in commercio” o, come più chiaramente affermato nella versione originale dell’Accordo, “staple commercial product” ossia “prodotti di base o di largo consumo”.

Il comma 2 ter dell’articolo 66 statuisce che, nel caso in cui i mezzi offerti siano costituiti da prodotti correntemente in commercio, la contraffazione indiretta sussiste solo ove il fornitore dei mezzi induca il soggetto a cui sono destinati a commettere contraffazione.

In tale ipotesi, quindi, il fornitore non potrà essere condannato se non a fronte della dimostrazione di una sua attiva e dolosa partecipazione all’integrazione dell’illecito da parte dell’utente finale. Si tratta di una sorta di “invito alla contraffazione”, sulla scorta del più noto fenomeno statunitense dell’active inducement.

La logica di tale eccezione, che probabilmente può essere meglio colta facendo riferimento al testo inglese, è quella di limitare l’illecito alle sole ipotesi di “concorso attivo e doloso” nei casi di beni che, in ragione della loro ampia diffusione, sono passibili di molteplici e disparati usi nei settori della tecnica, e quindi, almeno in via potenziale e astratta, maggiormente suscettibili di interferire con privative altrui.

Trattandosi di un concetto e di una definizione nuovi, occorrerà attendere le pronunce giurisprudenziali per comprenderne l’effettiva e concreta portata applicativa.

Di rilievo infine la disciplina contenuta nell’ultimo comma aggiunto, il comma 2-quater dell’articolo 66.

Tale disposizione ha suscitato il maggiore dibattito per la sua forte carica innovativa e per le rilevanti conseguenze de iure condendo.

La norma specifica che ai fini della contraffazione indiretta “non si considerano aventi diritto all’utilizzazione dell’invenzione i soggetti che compiono gli atti di cui all’articolo 68, comma 1”, affermando, in sostanza, che il fornitore dei mezzi è perseguibile anche nelle ipotesi in cui il contraffattore finale (i.e. chi attua per intero l’invenzione) non lo sia, in ragione di una delle scriminanti previste dall’articolo 68, comma 1 del Codice della Proprietà Industriale.

In controtendenza rispetto al predominante, seppur non unanime, orientamento giurisprudenziale del passato, il quale configurava un contributo alla contraffazione solo nelle ipotesi in cui si potesse rilevare e perseguire anche il corrispondente illecito di contraffazione finale (Trib. Torino 15.06.2012, Giur. Ann. Dir, ind, 2010, 926), il legislatore ha stabilito la sussistenza dell’illecito di contraffazione indiretta a prescindere dalla individuazione, almeno dal punto di vista strettamente normativo, della contraffazione finale e diretta.

Il comportamento del contraffattore “contributivo” è quindi illegittimo anche quando la condotta del destinatario del contributo non sia perseguibile. Ciò potrebbe avere conseguenze di grande impatto.

Ad esempio con riguardo all’ormai sempre più diffuso fenomeno delle stampanti 3D e della nascita di un mercato di file digitali contenenti disegni e istruzioni utili alla riproduzione di impianti e beni. Ebbene, se l’utilizzatore finale in caso di riproduzione di un bene oggetto di brevetto potrebbe essere scriminato in ragione dell’uso non commerciale del bene (art. 68, comma 1 lett. a), di tale trattamento di favore non potrebbe avvantaggiarsi, neanche indirettamente, il corrispondente fornitore dei file digitali – anche se e nel caso in cui riuscisse a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, di aver fornito i file esclusivamente per uso privato e non commerciale.

È indubbio che la citata normativa è destinata ad incidere fortemente sulle dinamiche del mercato.

La positivizzazione di obblighi di diligenza tanto cogenti nei confronti dei fornitori, finora rilevati solo in via interpretativa, comporterà per gli stessi una maggiore attenzione nello svolgimento delle operazioni commerciali, tanto sotto il profilo della scelta dei clienti che della destinazione finale dei prodotti ceduti.

Solo il tempo ci dirà se ciò produrrà, come nei progetti del legislatore, effetti sostanzialmente positivi nel mercato, grazie ad un rafforzamento degli strumenti per la lotta alla contraffazione e di tutela delle privative, ovvero se ne determinerà una contrazione, a causa dell’obiettivo aumento dei profili di rischio e incertezza per gli operatori.

Dipenderà molto dall’interpretazione e applicazione dell’istituto da parte dei tribunali italiani.

 

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