Il caso Lambo.com tra UDRP e cybersquatting: la decisione WIPO e il concetto di malafede

La controversia sul dominio <lambo.com>, conclusasi nel 2024 con la riassegnazione a favore di Automobili Lamborghini S.p.A., offre un interessante spunto di riflessione sui confini della tutela del marchio nel contesto dei nomi a dominio e sul significato giuridico del concetto di bad faith.

Al centro della disputa vi è la tensione tra due interessi contrapposti: da un lato, il diritto del titolare di un marchio notorio di evitare utilizzi speculativi del segno; dall’altro, il diritto, talvolta rivendicato, dell’investitore di domini a detenere nomi generici o abbreviati, anche se evocativi di marchi celebri.

Nel 2022, Lamborghini ha promosso un’azione UDRP contro Richard Blair, acquirente del dominio <lambo.com> nel 2018 per 10.000 dollari.

Il termine “Lambo” è diffusamente utilizzato come abbreviazione del marchio LAMBORGHINI, marchio registrato in Unione europea sin dal 2008.

Dopo l’acquisizione, Blair ha tenuto il dominio inattivo, limitandosi a proporlo in vendita su marketplace specializzati, con richieste economiche via via crescenti (fino a 75 milioni di dollari).

Alla luce di ciò, Lamborghini ha ritenuto tale condotta finalizzata a sfruttare indebitamente il valore del proprio marchio, avviando la procedura di riassegnazione dinanzi al Centro Arbitrale della WIPO.

Il Panel WIPO, composto da tre esperti, si è pronunciato a maggioranza a favore della casa automobilistica italiana, ordinando il trasferimento del dominio sulla base della Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy (UDRP).

I tre requisiti della Policy sono ben noti:

  • somiglianza confusoria tra dominio e marchio;
  • assenza di diritti o interessi legittimi del resistente;
  • registrazione e uso del dominio in malafede.

Sul primo punto, il Panel ha ritenuto evidente la confondibilità tra <lambo.com> e il marchio LAMBORGHINI, riconoscendo che “Lambo” è un’abbreviazione ampiamente utilizzata nel linguaggio comune e commerciale per riferirsi ai veicoli della società italiana.

Quanto all’interesse legittimo di Blair, il Panel ha escluso che egli potesse vantare diritti sul nome, anche in considerazione dell’assenza di un uso effettivo del dominio e della mancata prova che “Lambo” fosse un suo alias consolidato. Il dominio non era utilizzato per offrire beni o servizi legittimi, ma solo posto in vendita, talvolta reindirizzato a forum di discussione ostili a Lamborghini.

La parte più rilevante della decisione concerne però l’accertamento della malafede, che il Panel ha individuato sia nella registrazione che nell’uso del dominio. Vari indizi convergenti, tra cui l’assenza di un progetto autonomo, la consapevolezza della notorietà del marchio e le richieste economiche esorbitanti, hanno portato la maggioranza a concludere che Blair avesse registrato <lambo.com> con l’obiettivo primario di trarre profitto sfruttando la fama del marchio altrui, configurando così un caso di cybersquatting.

Di diverso avviso il Panelist dissenziente, Hon. Neil Brown Q.C., il quale ha evidenziato come Lamborghini non facesse un uso commerciale attivo del marchio “LAMBO”, rendendo meno convincente la pretesa prioritaria sulla sua abbreviazione. Inoltre, secondo Brown, la semplice offerta in vendita di un dominio non può di per sé costituire prova di malafede: sarebbe irragionevole, ha osservato, presumere che ogni investitore in domini sia in malafede per il solo fatto di voler vendere un asset digitale.

La critica più forte è stata rivolta alla procedura: la maggioranza del Panel ha scelto di decidere senza emettere un ordine procedurale che consentisse a Blair di integrare la prova del presunto uso del soprannome “Lambo”, con ciò, secondo Brown, compromettendo il diritto di difesa del resistente.

Il dissenso, pur isolato, richiama un punto importante: la valutazione della malafede nelle controversie UDRP resta ampiamente discrezionale.

Se da un lato è essenziale tutelare i marchi notori contro l’accaparramento speculativo di domini, dall’altro non può essere automaticamente criminalizzata ogni forma di domain investing, soprattutto in presenza di nomi generici o ambigui. Il caso <lambo.com> si colloca proprio su questa sottile linea di confine.

Allo stesso tempo il caso illustra bene il ruolo decisivo che il concetto di malafede gioca nei procedimenti UDRP.

La decisione della WIPO dimostra come, in presenza di elementi anche indiziari ma convergenti (prezzi spropositati, mancanza di usi legittimi, collegamenti con un marchio celebre), sia possibile giungere a una condanna per cybersquatting anche senza prove esplicite di contatti o offerte rivolte al titolare del marchio.

Allo stesso tempo, il dissenso nel Panel ci ricorda che il diritto dei nomi a dominio resta uno spazio giuridico fluido, in cui principi generali (come la libertà contrattuale o l’investimento legittimo) devono essere bilanciati con la protezione dei diritti di proprietà industriale.

In definitiva, la WIPO ha privilegiato una visione sostanziale del concetto di “intento di profitto in malafede”, basandosi su una lettura contestuale dei fatti, in linea con l’obiettivo della UDRP di contrastare l’appropriazione parassitaria di asset digitali collegati a marchi distintivi.

La successiva conferma giudiziaria della decisione da parte del tribunale federale dell’Arizona, sia pure sulla base della normativa statunitense (ACPA), rafforza l’impostazione della WIPO e contribuisce a definire i contorni sempre più precisi della malafede nel contesto digitale.

Il messaggio per i domain investor è chiaro: detenere nomi strettamente associati a marchi famosi, senza uno scopo autonomo e legittimo, espone a un elevato rischio legale.

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