Nomi di dominio, tra libertà di espressione e funzione distintiva del marchio nell’esperienza della riassegnazione

La ricerca di un delicato equilibrio tra libertà fondamentali, come il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, e la funzione distintiva ed attrattiva di un marchio commerciale ha occupato, non solo la giurisprudenza nazionale e comunitaria, ma anche il settore delle procedure di riassegnazione di nomi di dominio.

Come è noto, le controversie sui nomi di dominio generici (gTLD new gTLD) sono affidate, insieme e senza sovrapporsi alla magistratura ordinaria, ad organismi arbitrali internazionali (WIPO, tra tutti) chiamati ad applicare un insieme uniforme di regole note come Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy (UDRP o Policy). Il testo della Policy è il frutto di un compromesso tra i vari stakeholders in gioco: da un lato, i registrar ed i registranti interessati a limitare l’ambito applicativo delle norme ai soli casi di palese e manifesto cybersquatting; dall’altro, i brand owners ovviamente più inclini ad allargare le maglie della Policy ai casi più dubbi e controversi. Il risultato, come spesso accade quando sono in gioco interessi così lontani, è un testo che lascia ampi margini interpretativi a chi lo dovrà applicare.

Una delle questioni più discusse, a partire dall’entrata in vigore della Policy (1999), è proprio rappresentata dai nomi di dominio, corrispondenti a marchi anteriori, utilizzati nell’ambito dell’esercizio della libertà di espressione.

Il primo tema da affrontare è se dispute che coinvolgono il rapporto tra diritti fondamentali e nomi di dominio “abusivi” possano rientrare nell’ambito applicativo della Policy. In altre parole, nel quadro normativo esistente, può un arbitro pronunciarsi sul trasferimento di un nome di dominio se chi lo ha registrato e lo utilizza lo fa esclusivamente per esercitare il proprio diritto di critica (c.d. criticism sites)? Tale questione era stata affrontata già in sede di stesura della Policy e poi dibattuta nella fase di applicazione iniziale della stessa.

Alcuni Arbitri ritengono che la Policy non abbia “giurisdizione” nel caso in cui siano in gioco principi come la libertà di espressione, essendo l’ambito applicativo di tale regolamentazione limitato ai soli casi di palese cybersquatting nei quali il titolare registri ed utilizzi il nome di dominio per finalità economiche e commerciali[1]. Alla base di questo approccio, si citano i lavori preparatori che hanno condotto alla stipula della Policy, e nei quali si circoscriveva l’ambito applicativo della procedura ad una serie limitata di casi in cui il dominio veniva registrato per sfruttare commercialmente ed in mala fede un marchio di un terzo, lasciando gli altri casi alla giurisdizione della magistratura ordinaria[2]. Dunque, seguendo questo approccio, il fatto che una procedura di riassegnazione sollevi questioni non prettamente commerciali ed economiche (ad, esempio coinvolgendo diritti fondamentali, come la libertà di espressione) avrebbe dovuto portare ad una pronuncia di rigetto del ricorso in rito, senza alcun pronunciamento sul merito, trattandosi di una questione di competenza della magistratura ordinaria.

Invero, l’orientamento prevalente[3] è quello di includere nel raggio applicativo della Policy, anche dispute che coinvolgono diritti fondamentali. Ed infatti, il testo della normativa, non contiene alcuna disposizione che giustifichi tale esclusione. Al contrario, alcune norme sembrerebbero ammettere, anche se in via implicita, che un arbitro possa pronunciarsi su controversie che non coinvolgono interessi meramente commerciali. Tra queste:

  1. i) art. 4(c)(iii) individua delle fattispecie (non tassative) che attribuiscono al registrante un interesse o diritto alla registrazione del nome di dominio, impedendone il trasferimento a favore del ricorrente. Tra queste, vi è l’ipotesi in cui il registrante faccia un legittimo uso non commerciale del nome di dominio. Dunque, per difendersi in una procedura di riassegnazione, non è sufficiente fare un uso non commerciale del dominio, ma è necessario che tale uso sia anche legittimo. Pertanto, la Policy parrebbe contemplare l’ipotesi di un uso non commerciale ma al contempo illegittimo del dominio, che non sarebbe di ostacolo alla procedura di riassegnazione;
  2. ii) art. 4(b) la Policy elenca, in via non esaustiva, degli esempi di condotte che integrano il requisito della registrazione e uso in mala fede. Ebbene, tali fattispecie non fanno alcuna differenza tra un uso commerciale ed un uso non commerciale del nome di dominio;

iii) infine, la Policy non identifica l’uso commerciale del dominio come uno dei requisiti necessari per poter ottenere il trasferimento / la cancellazione del dominio. Al contrario, il par. 2, fa un generico riferimento a nomi di dominio che violino i diritti del titolare del marchio.

Quest’ultimo è l’approccio seguito dalla prevalenza degli Arbitri. Pertanto, il fatto che una disputa coinvolga diritti fondamentali come la libertà di espressione non esclude, di per sé, che essa sia sottoponibile alle regole della Policy ed al giudizio dell’arbitro. Non è infatti in discussione la libertà del registrante di creare un sito internet ed utilizzarlo per criticare il ricorrente, quanto il fatto di esercitare tale libertà mediante la registrazione di un nome di dominio identico o simile ad un marchio legittimamente detenuto ed usato da un terzo.

Posto che le procedure di riassegnazione possono, in astratto, decidere su casi in cui sia coinvolta la libertà di espressione, occorre affrontare il diverso tema relativo a quando, in concreto, tali libertà prevalgono sugli interessi dei brand owners, e quando, invece, a prevalere siano gli interessi di questi ultimi.

Da una analisi sistematica delle decisioni, emerge che gli Arbitri attribuiscono particolare rilievo alla natura del nome di dominio oggetto della controversia[4]. In caso di dominio identico al marchio (ad esempio, <trademark.com>) si tende a far prevalere gli interessi dei brand owners a discapito della libertà di espressione. Infatti, l’identità tra dominio e marchio provocherebbe un aumento di traffico di rete verso il sito internet, che nulla ha a che fare con i contenuti dello stesso e quindi con i meriti di chi lo gestisce, ma che è dovuto esclusivamente alla notorietà del marchio altrui. In altre parole, un utente di internet che seleziona un nome di dominio identico ad un marchio (<trademark.com>) si aspetta di trovare un sito internet gestito direttamente dal titolare del marchio; se, invece, il sito internet ospita un blog di critica del brand owner, il legittimo affidamento dell’utente di rete viene frustrato e questa circostanza, per molti Arbitri, è sufficiente a comprimere il principio di libertà di espressione a favore della funzione distintiva ed attrattiva di un marchio commerciale. Si tratta di un approccio evidentemente ispirato alla teoria della initial interest confusion (o pre sale confusion), che consiste nella confusione del marchio tutelato al momento dell’approccio dell’utente, con un sito che richiama, come nome di dominio, il marchio tutelato. A ciò si aggiunge anche l’indebito vantaggio del titolare del dominio e consistente nel numero di utenti che visiteranno il sito web, confidando di trovare un sito ufficiale del brand owner.

Completamente diversa è la situazione di un nome di dominio composto dal marchio associato ad un termine (ad esempio, <odiotrademark>, <trademarkfaschifo.com>, <trademarksucks>), che dà immediatamente all’utente l’idea di un sito web utilizzato per criticare / o esprimere opinioni negative sul brand owner. In tal caso, l’utente di internet è, fin dall’inizio, consapevole che il nome di dominio non fa parte del networkufficiale del titolare del marchio e che lo stesso è utilizzato per finalità di critica. Viene meno, dunque, il supporto della teoria della pre sale confusion e, per tali ragioni, in questi casi, ha spesso prevalso l’interesse del titolare del dominio e la sua libertà di espressione.

Ulteriore fattore tenuto in forte considerazione è l’uso commerciale o meno del nome di dominio contestato[5]. Come detto, la finalità commerciale non costituisce una condizione necessaria ai sensi della Policy, ma rimane, in concreto, un requisito importante per stabilire se vi sia fair use del dominio. E’ evidente, infatti, che se la libertà di critica rappresenta solo un pretesto per svolgere in realtà una attività economica sfruttando il marchio tutelato, allora viene meno qualsivoglia presupposto di fair use del nome di dominio. Si pensi all’ipotesi di un sito internet che, in apparenza si presenta come un blog di critica del marchio, ma che ha, al proprio interno, delle sezioni in cui è possibile acquistare prodotti recanti il marchio o prodotti in concorrenza con quelli contraddistinti dal marchio. Si pensi, ancora, al caso di un blog che contiene numerosi link pubblicitari o pay per click, accanto ai commenti negativi sul marchio. Si pensi, infine, al caso del titolare del sito web che contatta il proprietario del marchio, offrendo in vendita il dominio per una cifra molto elevata. Queste circostanze sono state considerate utili per supportare l’uso in malafede del dominio e quindi a favorire la posizione del brand owner in precedenti procedure di riassegnazione.

Accanto a tali fattori, gli Arbitri hanno considerato, anche se in via residuale, ulteriori elementi come:

(i) la registrazione di molteplici nomi di dominio composti dal marchio da parte dello stesso titolare. Gli arbitri tendono ad escludere che sussista un fair use, in caso di domini registrati in elevate quantità dallo stesso soggetto, ancorché tutti utilizzati per esprimere critiche ed opinioni negative sul brand owner. Alla base, vi è l’idea che per creare un sito di critiche nei confronti del marchio, è sufficiente registrare uno, al massimo due domini ma se i domini sono numerosi, l’effetto è quello di impedire al titolare di riflettere il proprio marchio nel corrispondente nome a dominio, recando danno alla propria attività commerciale;

(ii) le caratteristiche del sito internet cui reindirizza il nome di dominio. In presenza di un sito estremamente simile a quello ufficiale del brand owner e l’assenza di un disclaimer che informi i visitatori del sito web che il titolare del dominio non ha alcun diritto sul marchio tutelato, possono aiutare il brand owner a spostare l’ago della bilancia a proprio favore in casi controversi[6].

A questo punto, è utile verificare come questa prassi giurisprudenziale trovi applicazione in un caso concreto. Ha raggiunto una certa notorietà (con articoli su Newsweek e Business Insider) il nome di dominio <trumphotels.org>, registrato da un avvocato americano ed utilizzato per pubblicare articoli e commenti negativi sulle politiche interne ed estere dell’attuale presidente degli Stati Uniti.

Come è noto, Donald Trump, oltre al suo impegno in politica, è un imprenditore di grande successo. Le sue attività si estendono anche al settore alberghiero e sono ovviamente protette da privative industriali in tutto il mondo, anche per servizi alberghieri ed anche per il marchio TRUMP HOTELS. È molto probabile, dunque, che <trumphotels.org> sia un dominio appetibile ed interessante da acquisire per il Presidente ed il suo team di legali.

La natura del dominio è composta dal marchio protetto, TRUMP, associato ad un termine generico “HOTELS”, chiaramente riconducibile ad un’area di business del potenziale futuro ricorrente. A mio avviso, questo è un elemento a favore del titolare del marchio, in quanto, il dominio di per sé, non suggerisce al visitatore che si tratti di un blog sulle attività del Presidente. Al contrario, un utente di internet, a fronte di <trumphotels.org>, crederà ragionevolmente di visitare un sito web ufficiale del brand owner. Peraltro, società riconducibili al Presidente degli Stati Uniti, sono titolari anche di marchi “TRUMPHOTELS”, quindi perfettamente identici al dominio in questione.

D’altro canto, occorre considerare ulteriori elementi favorevoli al titolare del sito. In primo luogo, il sito web ospita esclusivamente commenti ed articoli, di critica e, in taluni casi, satirici, relativi alla politica interna ed estera del Presidente. Nel sito, non vi è traccia di attività economica né di link pubblicitari che possano suggerire l’intento di sfruttare commercialmente il marchio TRUMPHOTELS. A ciò si aggiunga che, da una ricerca condotta non sono emersi ulteriori nomi di dominio composti dal marchio tutelato a nome del titolare del blog. Infine, ulteriore fattore da non sottovalutare, è che il sito contiene un disclaimer, chiaro e visibile, in cui si segnala agli utenti, che chi gestisce il sito non ha alcun diritto sul marchio TRUMPHOTELS e che il sito ospita esclusivamente contenuti informativi e satirici.

Il caso è interessante perché coinvolge tutti i fattori che la giurisprudenza ha considerato in tema di rapporti tra esclusiva del marchio e libertà di espressione nell’ambito delle procedure di riassegnazione. La natura del nome di dominio è un fattore a favore del potenziale ricorrente, mentre l’assenza di finalità commerciali e la presenza di un chiaro e visibile disclaimer sono argomenti a favore del potenziale resistente. Il caso sarebbe dagli esiti certamente incerti, ma, a mio avviso, le chance sarebbero leggermente a favore dell’avvocato newyorkese. Un fattore che potrebbe risultare decisivo in questo caso è la nazionalità dell’arbitro che verrebbe selezionato per dirimere la controversia. Ed infatti, i soggetti coinvolti sono statunitensi ed è molto probabile che, in caso di procedura di riassegnazione, verrebbe selezionato un arbitro americano. I giuristi statunitensi tengono in fortissima considerazione il Primo Emendamento della Costituzione Americana che sancisce, tra gli altri, il principio della libertà di espressione e di stampa. A tal riguardo, vi sono stati dei casi, proprio sulla base del Primo emendamento, nei quali gli Arbitri hanno deciso a favore del titolare del dominio, pur essendo questo identico al marchio tutelato ed utilizzato senza finalità commerciali[7]. Alla luce di questo, è improbabile che Mr. Donald Trump possa riuscire ad ottenere il trasferimento del dominio tramite una procedura UDRP, e, probabilmente, è proprio questo il motivo per cui il sito è ancora online.

In ultima analisi, gli Arbitri hanno raggiunto un consolidato orientamento a favore dell’allargamento delle maglie della Policy anche a casi che non rientrano nella definizione tipica di “cybersquatting“. Nel merito, tuttavia, è compito degli interpreti valutare, alla luce delle circostanze del caso concreto e tenendo a mente gli orientamenti sopra illustrati, se il criticism site possa essere definito “legittimo” e, quindi, al riparo da contestazioni oppure se rientri nei casi in cui il brand owner può ottenerne il trasferimento ovvero la cancellazione.

 

[1] Opinioni dissenzienti in WIPO case n. D2008-0387Aspis Liv Forsakrings AB vs Neon Network, LLC, e WIPO case n. D2013-0097Yellowstone Mountain Club LLC vs. Offshore Limited D.

[2] Second Staff Report on Implementation Documents for the Uniform Dispute Resolution Policy.

[3] WIPO Overview of WIPO Panel Views on Selected UDRP Questions, Third Edition (“WIPO Jurisprudential Overview 3.0”).

[4] WIPO case n. D2006-1627Joseph Dello Russo M.D. vs. Michelle GuillauminWIPO case n. D2008-0647Sermo Inc VS CatalystMD LLC; v. anche WIPO Overview of WIPO Panel Views on Selected UDRP Questions, Third Edition (“WIPO Jurisprudential Overview 3.0”), 2.6.2., 2.6.3.

[5] WIPO case n. D2000-0662Wal-Mart Stores INC vs Richard MacLeodWIPO case n. D2016-1465De Beers Intangibles Limited vs. Domain Admin; v. anche WIPO Overview of WIPO Panel Views on Selected UDRP Questions, Third Edition (“WIPO Jurisprudential Overview 3.0”), 2.6.1..

[6] WIPO case n. D2017-0091Bernardelli Cesarina vs. Paola Ferrario, Ferrario Photography.

[7]  WIPO case n. D2004-0014, Howard Jarvis Taxpayers Association vs. Paul McCauley.

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